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Istituzioni politiche e religiose dell’antica Roma

Le istituzioni politiche.

Tra il VII e il VI secolo ci furono delle forti trasformazioni sociali a Roma dovute all’aumento continuo della popolazione e alla suddivizione sociale fra patrizi e plebei, per non parlare della nascita di nuove figure professionali come artigiani e marcanti. Altro motivo fu lo sviluppo di nuovi interessi economici, non più legati esclusivamente alla produzione agricolo-pastorale, ma all’aumentare di compiti di governo, delle responsabilità politiche e degli impegni militari.

In corrispondenza con queste trasformazioni sociali, economiche e politiche, anche l’ordinamento costituzionale dello stato ssi era venuto modificando, fino ad assumere un assetto abbastanza preciso; gli organi politici fondamentali erano:

  1. il re: con carica ereditaria, accentrava su di sè il potere religioso, come sommo sacerdote, il potere militare, come comandante dell’esercito, il potere giudiziario, come giudice supremo del popolo. Contro le condanne a morte da lui pronunciate, il cittadino romano poteva appellarsi al popolo riunito in assemblea (provocatio ad popolum) e ottenere l’assoluzione.
    Il re, inoltre, emanava le leggi (potere legislativo) e ne garantiva l’applicazione (potere esecutivo). Esercitava le sue funzioni di governo giovandosi dell’assistenza di due assemblee: il senato e i comizi curiati.
  2. il senato: secondo la tradizione, inizialmente era composto da 100 senatori, scelti dal re fra i più stimati patrizi (senex = vecchio); poi il numero fu raddoppiato e infine triplicato. Alla morte del re il senato incaricava dieci senatori di scegliere un candidato al trono, anche straniero, da proporre ai comizi curiati per l’elezione.
    Il senato era consultato dal re sui più importanti problemi di politica interna ed estera. Inoltre era chiamato ad approvare o respingere le leggi proprste dal sovrano e le deliberazioni prese dai comizi curiati, cioè dall’assemblea popolare.
  3. comizi curiati: erano formati dai cittadini romani divisi in 30 curie (co-viria = unione di uomini). Curia è il nome della più antica ripartizione della popolazione romana inizialmente divisa da Romolo in tre tribù, corrispondenti ai tre aggruppamenti che formavano la Roma preistorica: dei Ramni (=i fiumaioli, coloro che abitavano vicino al fiume), dei Tizii (la componente sabina), dei Luceri (forse la comunità etrusca che abitava nei luci, cio+ nei boschi a sud della città).
    Ogni curia era formata da 10 genti (gens = gruppo gentilizio) ed aveva funzioni militaried elettorali. Funzioni militari, in quanto doveva fornire all’esercito 100 fanti (una centuria) e 10 cavalieri: l’esercito era così costituito da 3.000 soldati e da 300 cavalieri (una legione); funzioni elettoriali, in quanto doveva eleggere 10 senatori, uno per ogni gente, pari quindi a 300 senatori, tanti quanti furono dopo la riforma attribuita a Servio Tullio. L’assemblea generale delle curie, il comizio curiato, dichiarava la guerra, conferiva insieme al senato il potere supremo al re, approvava o disapprovava le proposte di legge, giudicava in ultima istanza le condanne a morte, ratificava la nomina del re fatta dal senato.
    Sede dei comizi era il Foro
    , dove erano predisposti 30 settori rettangolari, delimitati da funi e da pali, riservati ciascuno ad una curia. Annunciata la questione proposta dal re o dal senato, ogni membro di una curia andava a destra per indicare la sua risposta affermativa e a sinistra per la negativa; ogni curia esprimeva così la sua opinione, che valeva un voto. La proposta era approvata se almeno 16 cure davano voto favorevole.

Le istituzioni religiose.La tradizione vuole che le prime istituzioni religiose siano state istituite da Numa Pompilio, in realtà a Roma non ci fu mai una vera e propria casata sacerdotale indipendente. A sottolineare l’assenza di autonomia sta il fatto che la carica sacerdotale non era incompatibile con la magistratura civile, infatti, come il pater familias era il sacerdote della sua casa, così ogni magistrato poteva celebrare cerimonie di culto anche importanti, come, ad esempio, la cerimonia diretta ad ottenere il favore degli dèi prima di iniziare una guerra.

Esistevano, comunque, speciali collegi sacerdotali, cui erano assegnati i culti delle singole divinità dello stato. Il più importante era il collegio dei pontefici, presieduto da un potefice massimo. Durante l’età monarchica e in quella imperiale la carica di pontefice massimo veniva presa dallo stesso re o imperatore, mentre in età repubblicana veniva designato dagli altri pontefici, che a loro volta erano eletti dai comizi tributi.

I compiti del pontefice massimo erano di custodire il regolamento delle cerimonie religiose (in cui erano indicate le vittime da immolare), le date delle feste, i templi in cui dovevano essere celebrate, e, tra le più importanti adempienze, doveva compilare gli elenchi dei magistrati (Fasti) e redigere le cronache dei fatti storici (Annales).

Vi erano quindici flamini, oltre al pontefice massimo, ognuno dei quali si occupava della venerazione di una singola divinità dello stato.Tre dei quindici flamini erano di rango superiore perchè preposti all’adorazione di Juppiter (Giove), Marte e Quirino.

Vi era, poi, il collegio dei salii (da salire = danzare, perchè praticavano una danza guerriera), cioè quello formato dai sacerdoti di Marte che si occupavano di vigilare sugli scudi del dio della guerra che si credeva fossero caduti dal cielo.

Il terzo collegio di ordine religioso era quello delle vestali: sei sacerdotesse che attendevano al focolare di Vesta, simbolo della perennità di Roma.

C’erano, inoltre, il collegio degli auguri ed il collegio dei feziali. Il compito degli auguri era politicamente delicato e ambiguo: l’augure poteva minimizzare i segni sfavorevoli di un presagio, desunti dall’osservazione del volo e dal canto degli uccelli, dall’appetito e dalle contrazioni viscerali dei polli sacri, oppure poteva dare al magistrato che si apprestava a compiere una spedizione militare o a convocare i comizi la risposta che questi si attendeva, nel senso cioè che il cielo approvava quanto aveva in animo di fare. I feziali erano, invece, i depositari del diritto sacro relativamente ai trattati di alleanza e alle dichiarazioni di guerra per le quali si servivano di un particolare formulario.

La primavera sacra e la devotio

Il ius sacrum (diritto sacro romano) prevedeva la formulazione di voti pubblici fissati dallo stato per il buon esito di una guerra, per la fine di un’epidemia, per l’edificazione dei templi, per la celebrazione di giochi.

Il voto pubblico era la primavera sacra con cui il magistrato consacreava agli dèi tutti i nati della nuova stagione: vegetali, animali e uomini. Quando i neonati diventavano adulti, essendo votati agli dèi e, quindi, non più appartenenti alla comunità, venivano banditi e andavano a fondare altrove una colonia. Il voto della primavera sarebbe all’origine del popolo dei Piceni, infatti, i loro progenitori, inseguendo un picchio fuori dalle terre natie arrivarono nella regione picena; così come i Sanniti sarerebbero stati dei Sabini giunti a Sannio guidati da un toro a cui dedicarono la loro principale città, Bovianum. Questo rituale rimarca il sovraffollamento della penisolo durante la fase più arcaica.

Un istituto simile al voto pubblico era la devotio (devozione) il cui sacrificio non era condizionato dall’esaudimento della preghiera, ma precedeva e condizionava l’obbligo degli dèi. Un esempio tipico di devotio fu quella del console Decio Mure che, nell’imminenza di una grande battaglia contro i Sanniti, offrì se stesso e i nemici agli dèi inferi e con la sua morte decise la vittoria.